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Non esiste nessuna citazione particolare o nessuna opinione dell’autore sul suo lavoro fotografico che io possa utilizzare per cominciare questo articolo su Vivian Maier. Tutto quello che sappiamo di lei lo dobbiamo agli oggetti stipati dentro 200 scatole di cartone dimenticate in un box preso in affitto a Chicago, ritrovate per caso pochi anni prima della sua morte. Centinaia di rullini da sviluppare, qualche vestito, oggetti personali, una miriade di ricevute fiscali e assegni di rimborsi delle tasse mai incassati. Doveva essere una persona sui generis Vivian Maier.
Faceva la bambinaia per vivere, non si è mai sposata, ha fatto avanti e indietro tra Stati Uniti e Francia, dove ha passato parte dell’infanzia. Doveva essere una abituata a fare le valigie e a mettere via la roba.
Proprio la quantità abnorme di roba che questa donna è riuscita ad accumulare nel corso della vita, fu il primo motivo di interesse che spinse John Maloof, figlio di un rigattiere di Chicago, ad acquistare per 380 dollari, nel 2007, il contenuto di quel box, finito all’asta perché l’affittuario aveva smesso di pagare il canone da due anni. C’erano più di centomila negativi.
Maloof non era un esperto di fotografia: dopo aver sviluppato alcuni rullini ed aver pubblicato le foto su Flickr, ricevette molti consensi che lo spinsero a proseguire le ricerca e ad arrivare all’autore di quel lavoro immane ed intenso. Mentre Maloof intensificava le sue ricerche, da un’altra parte Vivian Maier, ormai anziana, cadeva, batteva la testa e veniva ricoverata in una casa di cura di Chicago, dove sarebbe morta nell’aprile del 2009, senza sapere che Maloof la stesse cercando e che di lì a poco il mondo avrebbe riconosciuto il suo lavoro come un patrimonio artistico di grande valore.
Vivian Maier è stata un’antesignana della street photography ed a questo genere appartengono i suoi lavori più interessanti. Sono immagini che hanno il potere di raccontare una storia e nel loro ordine temporale, rappresentano i cambiamenti della loro epoca. Vivian Maier girava sempre con una Rolleiflex professionale appesa al collo, acquistata grazie alla vendita della casa materna nel villaggio di Champsaur, nelle Alpi francesi.
Non era una bambinaia che si divertiva a scattare foto. Era una fotografa autodidatta che, vuoi per necessità, vuoi a causa di una personalità non comune, faceva la bambinaia. Non ha mai provato a vendere il suo lavoro, non lo ha mai proposto, lo ha accumulato come una moderna Emily Dickinson, che scrisse senza mai pubblicare e nascose i suoi lavori in posti impensabili, dove furono ritrovati solo dopo la sua morte.
Vivian lavorava presso famiglie benestanti e frequentava quartieri borghesi, eppure nel suo lavoro troviamo un interesse ossessivo per ciò che è dimenticato, lasciato a parte come oggetti abbandonati per strada e per chi lotta per sopravvivere. Questa necessità di salvare tutto quello che le scorreva davanti agli occhi ha prodotto un archivio ricchissimo di testimonianze su persone e cose, tra cui lei stessa. I suoi autoritratti ritraggono la sua figura riflessa in specchi o vetrine, lo sguardo è spesso severo, rari i ritratti in cui guarda in camera. Nel suo lavoro c’è tutto: le strade di New York e Chicago, i bambini, gli animali, gli oggetti, i muri e i graffiti. Un’opportunista imparziale che ritraeva tutto.
La sua mostra gira il mondo da qualche anno ed in Italia è già stata esposta a Milano, Monza, Roma. Se doveste trovarla sulla vostra strada, non perdetela. Nel frattempo, guardate il documentario Alla ricerca di Vivian Maier.
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