Sembra che un giovane italiano su quattro creda che l’uso sul web di termini che offendono, aggrediscono, esprimono odio o intolleranza rappresenti semplicemente il modo di comunicare in Rete e, di conseguenza, non vada corretto con provvedimenti di autorità esterne. Insomma, i giovani percepiscono il web come un mondo a parte, che merita una quota di tolleranza più elevata e una sorta di rassegnazione alla prevaricazione e all’odio. Ma c’è anche il rovescio della medaglia, ovvero un senso di deresponsabilizzazione rispetto a come ci si comporta in rete.
Per il 60% degli adulti, l’allarme sull’odio in rete è motivato, ma c’è un livello alto di rassegnazione e un 62% pensa che il fenomeno crescerà ancora. Il messaggio è: gli adulti sono preoccupati ma non sanno davvero cosa farci. Nella percezione degli intervistati le vittime principali del linguaggio violento sono immigrati (58,8 per cento), personaggi pubblici (37,1), omosessuali (35,4), musulmani (33), le donne (25,3) (fonte).
Il panorama è desolante. L’odio è reale fuori e dentro la rete. Il fattore più preoccupante è la differenza percepita tra il mondo reale e quello virtuale, tra le regole applicabili in uno e quelle che riguardano l’altro e quindi tra le conseguenze che, in realtà, sono esattamente le stesse. Diffamazione, minacce, ingiuria sono reati applicabili anche a quanto diciamo su internet. Clamorosi episodi di odio e di diffamazione non si contano più e oltrepassano i limiti della decenza.
Laura Boldrini è la portavoce di questo movimento anti-odio e non senza ragioni extra-istituzionali essendo stata lei stessa vittima di episodi di odio. Ha denunciato apertamente e formalmente le persone che le hanno rivolto minacce ed offese ed ha scritto una lettera a Mark Zuckerberg per coinvolgere Facebook in una “battaglia di civiltà”. Siamo ancora in attesa di una risposta.
Ci si chiede se la censura, applicata già con successo dalla maggioranza degli utenti che cancellano commenti offensivi o bloccano i responsabili, possa considerarsi un rimedio valido. Quelli di Parole Ostili, una community contro la violenza che vuole far riflettere sull’influenza delle parole, nel primo incontro di Trieste, hanno elaborato una sorta di manifesto della comunicazione non ostile. Ottime le intenzioni, ma sembra di essere davvero all’inizio di un discorso molto più complicato.
Allo stesso tempo, la denuncia da parte delle vittime viene salutata dall’opinione pubblica come un incredibile passo in avanti nella lotta all’hate speech, quando invece dovrebbe essere la semplice normalità. È di questi giorni la notizia che riguarda Bebe Vio, la campionessa paralimpica che ha deciso di denunciare la pagina su cui un manipolo di spostati le rivolgeva insulti, anche a sfondo sessuale. Da Cattelan su SkyUno ha poi partecipato a questo video. Forse l’ironia può essere l’arma più potente contro gli haters.
Prima di lei il caso emblematico di Diletta Leotta, che è finita sul palco di Sanremo a spiegare che occorre denunciare ogni violazione della privacy.
Certo, tutti questi discorsi sono belli ed edificanti ma il caso più grave, quello di Tiziana Cantone, dimostra proprio il limiti della denuncia da parte del comune cittadino e come le logiche della censura che governano il mondo reale siano completamente inadatte al mondo online, per tempi, giurisdizioni e possibilità reale di bloccare la diffusione dei contenuti inadatti, falsi o minacciosi.
Ecco che la palla passa di nuovo ai grandi media digitali, come Facebook e Google, ed alle strategie che dovranno attivare per mettere un argine all’odio in rete e agli haters. I due giganti hanno già promesso di intervenire bloccando la possibilità per pagine e siti che diffondono notizie false o ingiuriose di guadagnare dalle inserzioni pubblicitarie. Ma l’odio in rete si esprime attraverso le polisemiche, interpretabili parole e ci vorrà qualcosa di più di un algoritmo o di una funzione Segnala per garantire un ambiente quantomeno accettabile.