Gioventù de sinistra e beata inconsapevolezza vi hanno portato ancora minorenni a tuffarvi in grandi pezzi di letteratura per dimostrare un po’ al mondo e molto a voi stessi che la vostra coscienza politica e filosofica era già bella matura all’epoca in cui il viaggio più estremo che avevate fatto era la vacanza studio a Londra.
E tutto quest’eccesso di autostima per la vostra glocal-interiorità vi ha portato a divorare Herman Hesse e Tolstoj, Hemingway e Calvino con l’approssimazione tipica dell’adolescente che cerca di definire il proprio carattere e soprattutto di fare colpo sui pari esponenti dell’altro sesso, ché in certi ambienti se a 17 anni non avevi ancora letto Siddharta non eri proprio nessuno :|
15 anni dopo, ci restano ricordi sbiaditi di quello che abbiamo letto e la sensazione più netta di averli fatti fuori quando eravamo troppo dei pischelli per capirli fino in fondo.
Poco male, c’è tutto il tempo di rileggerli e vedere che effetto fa.
Questa è la mia lista dei 10 libri da rileggere dopo i 30 anni, già avviata. Aggiungete i vostri ;)
Quando lessi il capolavoro di Dostoevskij lo presi come una specie di sfida: avrei finito il tomo pesantissimo in carta riciclata e stampato in carattere 8 nell’estate dei miei 16 anni. Mi sembrò un poliziesco che la faceva abbastanza lunga sul concetto di rimorso. Bellissimo, per carità, ma se ci ripenso oggi credo di essermi persa buona parte dello sforzo dell’autore di raccontare della salvezza attraverso la sofferenza, e il capitalismo e il socialismo, la carità e l’ateismo, e soprattutto la relatività del limite morale tra il bene e il male.
I dubbi esistenziali del protagonista e la lirica e la meditazione dovrebbero fare di Siddharta un compendio delle inquietudini adolescenziali e della ricerca di sé stessi. Non è un caso che il libro di Herman Hesse sia stato una specie di manifesto per generazioni di giovani prima e per le avanguardie artistiche, attratte dalla cultura indiana, poi.
Devi leggerlo quando sei un ragazzo. E devi rileggerlo quando sei adulto perché dentro ci trovi filosofia e religione che molto probabilmente in passato non hai apprezzato abbastanza.
Un vecchio pescatore che rincorre un pesce per 3 giorni per poi vederlo divorato dagli squali al rientro in porto. Mi vergogno ad ammettere che è tutto quello che vidi nel romanzo di Hemingway, da saccente quindicenne che ero. In più i dettagli sulla pesca mi annoiarono moltissimo. Sono pronta ad essere dileggiata pubblicamente, fatevi avanti.
Da giovane non amavo molto la letteratura sud-americana per via del suo lato onirico che trovavo un oltraggio alla narrazione. Mi sembrava una scappatoia narrativa intollerabile mettere in mezzo, di punto in bianco, un evento a sfondo fantasy per concludere una vicenda o dare una svolta al romanzo. Sciocchezze, ovviamente. Dentro Cent’anni di solitudine c’è il senso della tragedia umana raccontato con uno stile favolistico. E ‘sti cazzi.
Negli anni ’90 passava in TV la pubblicità di una collana in edicola di non so quale quotidiano in cui un’attrice reduce dalle sit-com con Cristina D’Avena si rivolgeva al padre dicendo: “nella fattoria gli animali si vogliono ribellare, allora si mettono tutti insieme e fanno una grande rivoluzione. Ma tutti: galline, conigli, cavalli.. [il tono passa dall’appassionato al triste] Ma la democrazia dura poco e i maiali…” qui interveniva il padre – professionista integerrimo che si concedeva di stare in maniche di camicia soltanto in casa – “…e i maiali la trasformano in dittatura!“. [Siparietto]. Un romanzo per grandi e piccini, sempre buono da avere in casa, insomma.
Tanta pena per Gregor. Gregor Samsa uno di noi. La diversità non deve spaventare. Che schifo le famiglie. Ci sono un sacco di begli ingredienti nel romanzo di Kafka che ne fanno un romanzo da adolescenti. E va bene così. Andando un po’ più nel profondo si scopre facilmente che l’emarginazione del diverso può essere esteso dal contesto familiare a quello sociale e che alienazione e spersonalizzazione sono imposizioni invisibili della società.
Troppo scolastico per essere amato dai giovani. Troppo sottile per essere compreso fino in fondo da un pischello. Lo abbiamo portato assieme a Svevo agli esami di maturità perché ci interessava il concetto di frantumazione dell’IO ed eravamo in fervente attesa di conoscerlo dal vivo il nostro io. Dopo i 30 una mezza idea ce la siamo fatta.
Una volta al liceo un mio compagno di classe, per farsi bello in un tema di italiano, riportò una citazione dal libro di Dino Buzzati, ma quando si trattò di citare l’opera la nominò “Il Deserto dei Datteri”, in una fantasiosa trasposizione di stampo medio-orientale che dev’essere suonata più o meno così: deserto > beduini > datteri. Invece i Tartari sono l’emblema dell’attesa infinita che ci consuma, ci anima e finisce per essere il senso stesso delle nostre esistenze.
Città impossibili e paradossi viventi hanno un sapore imperfetto nell’età della ricerca delle risposte alle grandi domande. Da grandi, invece, ogni scusa è buona per spostarsi in un mondo impossibile e alternativo.
E poi la prosa di Calvino la puoi davvero apprezzare solo quando hai già alle spalle almeno un paio di mediocri manoscritti a metà ed hai vissuto l’avvilente presa di coscienza che non sarai mai uno scrittore.
Quando sei un ragazzino ami mostri e vampiri, credi di vivere una vita piena e avventurosa e sei convinto che nel tuo gruppo di amici cameratismo e complicità dureranno per sempre. Dopo i 30 cameratismo e complicità diventano merce talmente rara che nonostante il puro terrore suscitato dalle avventure dei protagonisti a caccia del Vampiro, faresti carte false per sentirti parte di un gruppo così temerario e unito.