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Business La rivoluzione che serve all’industria della moda è etica
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Il dato inequivocabile dal quale partire è uno: quella della moda è la seconda industria più inquinante al mondo, dopo quella del petrolio. L’industria della moda crea inquinamento dovuto alla lavorazione dei tessuti ed alla produzione. Ma inquina anche perché produce un’enormità di rifiuti: si parla di circa 70milioni di abiti buttati ogni anno e, purtroppo, il riciclo non è considerabile una soluzione perché, prima o dopo, quegli abiti diventeranno comunque spazzatura.

I fattori che incidono su questa situazione disastrosa sono tanti, da un lato la mancanza di controlli per le industrie tessili dei Paesi poveri del mondo che producono residui tossici che finiscono nelle acqua, dall’altra il mondo occidentale è tutto preso dalla Fast Fashion che produce 10 collezioni in un anno, invece delle classiche due di una volta e condanna il maglioncino dell’anno scorso a finire nell’immondizia perché, economico e di scarsa qualità, deve lasciare il posto al nuovo arrivato, nel nostro affollatissimo armadio.

L’inquinamento prodotto da una conceria a Dhaka, in Bangladesh. (Racked)

La situazione è chiara da anni anche grazie a Greenpeace che ha promosso a partire dal 2011, la campagna Detox: dopo aver analizzato i capi distribuiti da grandi marchi internazionali come Zara, Nike, Adidas, H&M ed aver riscontrato la presenza di sostanze nocive negli abiti in quantità superiori a quelle consentite dalla legislazione europea, ha attivato una campagna di sensibilizzazione che a portato molti brand a firmare un Detox Commitment, con l’impegno pubblico di attivare un action plan entro il 2020. Un’operazione che rischiava di essere un mero green washing, ma qualcosa, in effetti, sembra essere cambiata.

Un’attivista di Greenpeace protesta contro Zara (Getty)

Il gruppo Inditex, Benetton ed H&M, ad esempio, rispettano ad oggi scadenze serie e credibili per un futuro completamente privo di sostanze tossiche. Seguono con minore convinzione brand come C&A, Valentino, Adidas, Burberry, Levis, Primark, Puma, etc. Ci sono giganti dell’alta moda, invece, come Armani, Bestseller, Diesel, D&G, Gap, Hermès, LVHM Group/Christian Dior Couture, Versace che continuano ad ignorare la scia di sostanze inquinanti che si lasciano dietro e non hanno preso nessun impegno serio con i propri clienti.

A tentare di mettere un argine alla situazione non ci pensa solo Greenpeace.

Ci pensano stilisti come Tom Cridland che, davanti ai dati allarmanti, vuole tornare a realizzare capi d’abbigliamento che possano durare anche 30 anni. E ci pensa la Fashion Revolution Week, l’iniziativa worldwide che dedica proprio questa settimana alla moda etica.

Il tema della moda etica, oltre ad appassionare le star di Hollywood come Emma Watson, ha trovato la sua spinta definitiva nel 2013 all’indomani della tragedia del Rana Plaza in Bangladesh: un edificio di otto piani, considerato il polo produttivo tessile di marchi come Walmart, Auchan e Benetton. Il crollo dell’edificio, considerato inagibile, causò la morte di 1130 persone e più di 2500 rimasero ferite e l’Occidente sentì forse per la prima volta un lampo di rimorso per le condizioni in cui sono costrette a lavorare le persone che confezionano le nostre magliette, alla faccia delle “tinte unite di Benetton”.

La moda si può cambiare e loro ne sono la prova: le artigiane di KTS in India. #whomademyclothes #fashionrevolution https://t.co/EWR15wTHyV pic.twitter.com/z1fNyuYqEk

— altromercato (@altromercato) April 25, 2017

Oggi, la Fashion Revolution Week cerca di informare e di creare consapevolezza negli acquisti, spronando vecchi e nuovi brand ad uniformarsi a concetti di trasparenza e sostenibilità, a tutti i livelli. In questo senso, ha lanciato l’hashtag #WhoMadeMyClothes: indossi un capo al contrario in modo che si veda l’etichetta, ti scatti una foto e la condividi con l’hashtag della campagna. In questo modo chiedi alle case di moda informazioni e notizie su come quel capo è stato prodotto, in quali condizioni lavorano le persone che lo hanno realizzato, etc. Tutto questo per riflettere sulla questione e per far circolare notizie ufficiali da vagliare, poi, per i futuri acquisti. Un invito indiretto, insomma, ad esplorare le possibilità della moda etica.

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