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Perché dovreste guardare BoJack Horseman

Ci sono due grandi modi per rappresentare l’infelicità: drama e comedy.

Personalmente preferisco la seconda perché all’infelicità si accompagna quasi sempre un umorismo cinico, oscuro ed irresistibile.

Gli autori che ci sanno davvero fare, riescono a scavare nelle viscere schifose della delusione, della depressione o del fallimento, con espedienti leggeri come piume e a tenere tutto su un livello che ti fa ammettere senza paura e con un mezzo sorriso di compiacenza che sì, il deluso, il depresso, il fallito, beh sì, quello sei proprio tu.

È un’arte sottile e nel cinema la insegna da sempre Woody Allen. Nel mondo delle serie TV, lo fanno Tina Fey e Lena Dunham e ci sono già riusciti Don Draper e Tony Soprano ed Hank Moody a dirci con umorismo che la vita può fare schifo, ok, ma faresti bene a renderti conto che il vero problema, alla fine, sei tu.

BoJack Horseman entra di diritto in questo panorama e vi si piazza proprio al centro, in bella mostra.

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Negli anni ’90, BoJack era la star di una sitcom di successo, Horsin’ Around.

Fast forward fino ad oggi: BoJack è un cavallo mezzo umano e di mezza età, e leggermente in sovrappeso. Da quando la sitcom è finita, niente è andato come doveva per BoJack, che si trascina nella grande casa ad Hollywood, tra storie di una notte, tanto narcisismo, dipendenze da droghe ed alcol – ma niente di serio – pochissimi amici, nessuna voglia di partecipare alla human race.

 

 

BoJack è un infelice. BoJack si autocommisera. BoJack è depresso. Ma lo è in modo adorabile e toccante. Sotto la scorza dura si intravede l’animo di un cavallo profondo e sensibile, disfatto dalla vita, dall’infanzia difficile, dalle delusioni, dall’incapacità di riuscire a fare davvero qualcosa, invece di prendersi quello che la vita o gli altri hanno deciso di lasciargli.

Ma Bojack è divertente. È tagliente, arguto e spiritoso. Bojack non te le manda a dire. Con Bojack ci si diverte un sacco.

 

Nel bizzarro mondo di BoJack, animali-umani e umani convivono senza problemi, anche se i primi conservano qualche vecchia abitudine: il gatto rosa, agente di BoJack, Princess Carolyn, si fa le unghie sul divano e sulla scrivania ha un finto topo anti-stress; l’alter-ego di BoJack, l’amato-odiato Mr Peanutbutter, un labrador attore e super-figo, non mangia cioccolato e non riesce a guardare il tennis in tv perché l’idea che nessuno fermi quella palla lo fa impazzire.

Ma ci sono anche gli umani, come Diane, la ghost writer incaricata di scrivere una biografia di BoJack, una donna complessa e mai superficiale o Todd, l’amico distratto e un po’ svampito che vive sul divano di BoJack.

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Le tre stagioni scorrono via leggere e andando avanti, quei pochi cliché che avevamo trovato nelle prime puntate, lasciano il posto a momenti di umorismo altissimo e di sincera introspezione.

BoJack Horseman è una delle cose più belle che abbia mai visto sugli esseri umani in difficoltà. Il paradosso è che si tratta di un cavallo. Il fallimento è reale, le cose stanno continuamente per scivolare completamente dalle mani di BoJack e lui rischia davvero di perdersi. Ma non aspettatevi una svolta epica ed edificante per l’eroe che riprende in mano la sua vita.

Questa è la storia di un uomo che cerca di convivere con sé stesso.

E alla fine ti rendi conto che l’ottimismo – quello vero – è proprio quello di BoJack.

 

(BoJack Horseman è prodotta da Netflix, creata da Raphael Bob-Waksberg e disegnata dall’illustratrice Lisa Hanawalt).

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