Divertimento, musica, alcol e gnocca che abbondano nei dettagliatissimi resoconti fotografici su Instagram potrebbero far passare agli occhi dei meno attenti, il festival di Coachella come una sorta di contemporanea Woodstock.
Se, come me, siete cresciuti nel mito del rock’n’roll, di capelli lunghi e scarponi su campi sterrati, in piedi di fronte a un palco ed avete immaginato l’idillio di un mattino su un pezzo di Jimi Hendrix, il paragone non solo vi sembrerà azzardato ma sacrilego. Però, proviamo a metterci per un attimo nei panni dei fan di Beyonce & C., a pensarli fuori dai maxi-teatri scintillanti nei quali vanno di solito ad ascoltare e a veder ballare i propri idoli: al confronto un weekend all’aria aperta deve sembrare un’avventura senz’altro estrema.
Che Coachella fosse una specie di buona idea decisamente sfuggita di mano nel corso del tempo, avevo sempre avuto qualche sospetto. Basta dare un’occhiata ai resoconti fotografi di cui sopra: la musica è decisamente in secondo piano rispetto alle pettinature gipsy delle modelle di Victoria o dei look delle sorelle Kardashian/Jenner.
Anche la copertura mediatica è decisamente più interessata al lato glam dell’evento che al Festival in quanto tale. Del resto, noi italiani a queste cose ci siamo abituati. Siamo o non siamo arrivati in fondo a quasi 70 edizioni del festival della canzone italiana senza sapere mai chi fosse il vincitore ma con un’opinione precisissima sui look di cantanti e presentatori?
Stessa cosa per Coachella che di anni sul groppone ne ha molti di meno ed è nato con le migliori delle intenzioni. Gli ingredienti c’erano tutti per farlo diventare qualcosa di leggendario.
Nel 1993, i Pearl Jam avviarono una contesa con Ticketmaster che si occupava di vendere i biglietti per il loro tour, accusando l’agenzia di frode nei confronti dei fan e degli artisti. Ma il Vs tour era in corso e il gruppo di Seattle cercò posti alternativi in cui tenere i concerti. Così finirono all’Empire Polo Grounds di Indio, una città nella Contea di Riverside, nello Stato della California. Furono stupiti nel vedere migliaia di persone fare una gita attraverso il deserto per la loro esibizione di una notte – confermando che il polo club era un luogo praticabile per i concerti.
Il primo festival Coachella si è svolto in due giorni nell’ottobre del 1999 e dopo aver saltato un anno nel 2000, si è tenuto nella stessa sede in tutti gli anni successivi.
Poi sono arrivati i social network e la musica ha dovuto lasciare il posto alla fiera della vanità. Oggi siamo a due week-end di aprile, con un pubblico di più di mezzo milione di persone, metà dei quali devono essere influencer di qualcosa. Eppure lo scorso anno hanno suonato Lady Gaga e i Radiohead per dirne due ma i resoconti che giungono dalla California sono tutti pizzi banchi e pettinature anni ’70, perché rubano la scena. Così siamo finiti in un vortice assurdo il cui punto estremo è rappresentato, probabilmente, dalla Collezione Coachella del marchio di abbigliamento casual di turno, disegnata a Frattamaggiore (NA) e prodotta in Cina.
Alla faccia del rock’n’roll.
Ed infine la ciliegina sulla torta: all’alba del 2018 salta fuori la notizia che Philip Anschutz, il miliardario patron del festival, è un repubblicano convinto che sovvenziona abitualmente campagne anti-aborto, contro i diritti LGBT e pro-armi. Sembra sia anche un negazionista del cambiamento climatico. Un Donald Trump, qualunque, insomma.
Che poi basta andare a qualche concerto estivo – persino in Italia e non per forza degli Stones – per accorgersi che questo grande carrozzone della musica rock a mandarlo avanti sono le persone comuni. Non le modelle, non i super-fighi, ma le persone comuni che comprano dischi e biglietti, magliette e Spotify. E ai concerti si dimenticano di farsi i selfie.