Sixto Rodriguez è americano. Ha le dita lunge, i denti larghi. Oggi tutti i grandi espertoni di musica – e parliamo di Rolling Stone o NME – lo erigono come bandiera di quelli che fanno gli operai di giorno e i musicisti di notte.
Tutte stronzate, confermate dal fatto che loro in primis e il mondo intero poi, lo hanno ignorato per quasi 30 anni continuando, nel filone della musica folk americana, ad osannare Dylan o Cohen ininterrottamente per mezzo secolo. Si sono fidati degli occhi e non delle orecchie, si può dire.
Sixto, che è il suo vero nome, per questi decenni, ha fatto il muratore. Ha costruito case a basso costo nelle periferie americane, case da due soldi perfette per crescerci una famiglia, di quelle con il giardino dietro e le pareti che con un cazzotto le butti giù.
Nel 1967, mentre Bob Dylan si spezzava la schiena cadendo dalla sua Triumph, dopo aver prodotto 4 tra i dischi più famosi della storia, il giovane Sixto Diaz Rodriguez incideva per una minuscola etichetta il suo primo singolo, I’ll slip away. Una ballata folk dalla dimensione perfetta, una decantazione nasale cantata in prima persona, che lo portò ad incidere due album, Cold Fact e Coming from Reality, che naufragarono pochi anni dopo assieme alla piccola etichetta che li produsse. Nel 1976 Rodriguez smise di suonare, si trovò un lavoro e comprò all’asta una casa semi-demolita per poterci passare il resto della sua esistenza.
Quello che non sapeva, però, è che in Australia, Sud Africa e altri stati come lo Zimbabwe o la Nuova Zelanda, la sua musica aveva grande successo. Un misterioso americano, che si dicesse fosse morto suicida negli anni 70, con gli occhiali da vista sfumati e una bocca enorme, che più che messicano sembrava un indiano d’America, era uno dei musicisti più apprezzati di sempre. Addirittura i suoi dischi venivano ristampati senza che lui lo sapesse, senza che ne ricavasse un soldo di diritti. A Detroit, Sixto era diventato un padre di famiglia impegnato nella società nella difesa della working class, dei piccoli diritti di chi vive di quello che lavora.
Nel 2012, uno sconosciuto trentacinquenne svedese, Malik Bendjelloul, gira un documentario su Sixto Rodriguez, il musicista fantasma. Tutto parte da un gruppo di fan sudafricani (sì, bianchi) che si mettono sulle sue tracce già dal 1990, ma si sa, 30 anni di silenzio possono renderti più che uno sconosciuto, possono ammazzarti. E così, il musicista vissuto-due-volte non sapeva di essere molto famoso in una nazione, il Sud Africa appunto, molto lontana dalla città dov’è nato. Per puro caso, sua figlia, nel 1997 si imbatte in un sito dedicato a suo padre. Non ci crede. Si mette in contatto con i creatori, e scopre che suo padre è uno degli artisti più apprezzati di sempre da quelle parti e che alcuni suoi pezzi sono veri e propri inni di libertà. Il redivivo Sixto Rodriguez fa qualche concerto in giro per il mondo, sale sul palco di qualche festival, fino a che i suoi dischi non vengono dati nuovamente alle stampe nel 2009.
Si parte dagli esordi, foto sbiadite con un ragazzino magro dai capelli lunghi che imbraccia una chitarra da poco, cercato in tutto il mondo dai suoi fan sudafricani che hanno cantato a squarciagola le sue canzoni per ricordarsi chi erano. La ricerca finisce, Sixto non è affatto morto e vive ancora in America. Gli telefonano “Lei è Sixto Rodriguez, il cantante?” Lui riattacca. Ci riprovano. “Lei è l’autore di Cold Fact? Qui è più famoso di Abbey Road..” Finalmente, gli autori del documentario lo trovano, vanno a casa sua dopo 4 anni di ricerche.
Proprio lui, compare dopo tanti anni in video seduto al tavolo della sua cucina. Le mani con le unghie opache, la pelle cotta dal sole. Non ha dimenticato che a vent’anni è stato un musicista, i suoi occhiali neri – che tiene per tutta l’intervista – ci dicono che non ha dimenticato i suoi sogni di rock&roll. La sua carriera musicale è stata un piccolo successo, senza che lui lo sapesse. Le sue canzoni sono state addirittura l’inno della coscienza contro l’Apartheid. Il documentario Searching for Sugar Man vince meritatamente il premio Oscar nel 2013 e viene rilasciata anche la magnifica colonna sonora, con i pezzi migliori di Rodriguez.
Oggi, il mondo ha riscoperto uno dei migliori cantastorie americani: le leggende, ogni tanto, riappaiono.
Nel 2014 il regista Malik Bendjelloul, un anno dopo aver ritirato il premio Oscar, si toglie la vita a casa sua, a Stoccolma.