Qualche tempo fa, da queste pagine ho proposto un intervento di Annamaria Testa dedicato all’immagine della donna in pubblicità. L’intervento tendeva a sottolineare come il tradizionale racconto dei generi, soprattutto quello che riguarda la donna, sia arretrato, sciatto e poco efficace. In due parole: riconsiderare il ruolo della donna in pubblicità è un buon affare per tutti, per le aziende, per le agenzie e anche per le ricadute sociali e la percezione della donna in generale. Quelle storie che ritraggono le donne come squilibrate ossessionate dallo sporco o mogliettine in calore in attesa del marito o compratrici seriali che emettono urla all’arrivo di un paio di scarpe nuove, non solo risultano stucchevoli e arretrate ma non sono più in grado (se mai lo sono state) di rappresentare bene la realtà della vita e delle ambizioni e delle abitudini di tutte noi.
Massimo Guastini, ex presidente dell’Art Directors Club Italiano, sostiene una tesi simile nell’indagine Come la pubblicità racconta gli italiani: dall’analisi di 20mila campagne, emergono 12 tipologie narrative femminili e 9 maschili. Nell’82% dei casi la rappresentazione della donna è esplicitamente quella di un oggetto, più che di un soggetto: a volte esprimono solamente un modello di bellezza, a volte un elemento puramente decorativo, altre sono manichini, altre ancora in preda ad espressioni di piacere sessuale, ammiccanti, pazzoidi. Tutte narrazioni di atteggiamenti femminili estremamente passivi, inespressivi, monotoni, squallidi.
Si potrebbe dire: “c’est la réclame!” Interessante tesi, vediamo se regge.
Dalla stessa ricerca, emerge che il profilo dell’uomo narrato dalla pubblicità è sbilanciato verso il lavoro: nella metà dei casi l’uomo rappresentato è un professionista. Molto raramente come padre. La situazione è chiaramente sbilanciata non per motivi di opportunità narrativa, ma solo per maschilismo.
Qualche anno fa anche io mi sono imbattuta in uno degli universi pubblicitari più maschilisti di sempre, quello dei materassi. Il settore è completamente e insanabilmente permeato di immagini sessiste: avvenenti ragazzotte distese in ogni posa possibile e immaginabile che, con fare ammiccante, ti invitano a provare quel materasso. E questo filo conduttore della ragazzotta in baby-doll tiene insieme quasi tutte le aziende del settore: grandi, piccole, medie e minuscole.
Ora, il collegamento materasso/sesso è talmente banale che non riesco a dirlo, ma il racconto non è mai di coppia, lui e lei che si godono la vita a bordo del fantastico prodotto, men che mai troviamo un Adone a convincerci che il riposo corretto rende belli.
Evidentemente nessuno dei grossi creativi coinvolti deve essersi mai chiesto chi sia il decisore nell’acquisto di un materasso. Sorpresa delle sorprese: le donne. Quelle stesse donne che per anni si sono viste sbattere in faccia cataloghi infestati da corpi femminili mezzi nudi e statuari, proprio quelli che piacevano ai direttori creativi e ai capitani delle imprese che commissionavano loro set da Playboy e guêpière da bordello cecoslovacco.
Risultato: un racconto completamente inefficace, che allontana i clienti invece di rappresentarli.
La storia recente della pubblicità è costellata di gaffe sessiste che brand più o meno grandi fanno: la triste realtà è che, dato per inesistente ogni loro senso di responsabilità sociale riguardo ai messaggi che lanciano dai cartelloni o nell’etere (non è obbligatorio averne), queste aziende rinunciano a produrre messaggi efficaci.
Ultimo esempio: YSL alla vigilia dell’8 marzo e in occasione della fashion week pensa bene di tappezzare Parigi con immagini di ragazze nell’ordine:
magrissime;
in mutande e calze a rete;
a bordo di tacchi altissimi dotati di pattini;
dal volto completamente inespressivo;
a gambe aperte o riverse su uno sgabello.
Tutti i simulacri del sessismo in un’unica immagine, beh, complimentoni!
Is that your way to celebrate women's day, YSL? Shame on you! #BeBoldForChange #YSLRetireTaPubDegradante pic.twitter.com/62DI9M5ohr
— Camille Bullot (@hello_camille) March 6, 2017
Ovviamente le polemiche si scatenano, il marchio ritira la campagna, i fotografi dopo essersela goduta amabilmente, tacciono.
Anche in questo caso un’occasione perduta di raccontare qualcosa di vero e di realistico sul conto delle donne. E attenzione! Realistico non è il contrario di artistico, si può essere molto più poetici nel raccontare una donna padrona di sé stessa, forte ed espressiva, una donna in cui ci si possa davvero riconoscere con fierezza. E non mi sto inventando niente di nuovo, è la strada presa da Peter Lindbergh per il Calendario Pirelli 2017, ad esempio.
Oggi è l’8 Marzo e a me non piace la piega che ha preso, così come non mi piacciono le quote rosa. Invece di regalare mimose, fatevi un piacere e lasciate che qualche donna prenda decisioni, lasciate che qualche donna faccia il direttore creativo, lasciate che sia qualche donna a raccontare di donne o – quando dovete parlare di loro/a loro attraverso la pubblicità – prima, almeno, ascoltate il loro punto di vista.