Come raccontare l’ultima vittoria – o tragedia – americana? L’elezione a uomo più potente del mondo di Donald Trump contro tutti i sondaggi ha generato un numero incredibile di riflessioni. Siamo sinceri nel dire che se avesse vinto la Clinton, si sarebbero scritte meno analisi e più articoli soft pieni di “lo sapevo”. È proprio invece questo shock che rende interessante l’epilogo della corsa verso la Casa Bianca. Nessuno vuole un miliardario perennemente paonazzo sessista e razzista alla guida del mondo libero ma la maggioranza lo vota. Sarebbe troppo difficile fare la disamina politica di un politico compassato come la Clinton, con Trump pare un compito meno arduo, perché il suo programma politico è sottile come un foglio di carta e le sue uscite sono sempre irriverenti. Un grande-immenso-gioco, che pare un grande-immenso-scherzo. Per questo ho voluto riassumere i cinque punti cardine del grande rush presidenziale nella forma, ironica, di un piccolo vademecum. Non lo troverete mai su Amazon.
La rabbia paga più dell’ottimismo. Come a dire che il modello Obama funziona sì, ma fino ad un certo punto. Quello che possiamo definire comune tra il presidente uscente e Trump è che le loro campagne (e le loro vittorie) sono figlie della corrosione degli schemi politici tradizionali, una sorta di rovesciamento divisivo del vecchio tipo di potere. Quello che ne traiamo è che il populismo può aiutarvi bilateralmente, che siate dei moderati come Obama o degli spettinati sanguigni miliardari come Trump.
Create un collegamento, quindi, tramite i social network tra voi e i vostri elettori. Siate diretti però, perché, come vedremo, è una strategia che pagherà generosamente. A differenza di Obama, Trump ha cominciato a coltivare il suo elettorato su Twitter molto prima della corsa alla Casa Bianca, trovandosi così un seguito ben nutrito. Ha twittato per anni imprecazioni e critiche contro qualsiasi argomento, dal frivolo gossip al problema immigrazione. Ha creato una specie di sottofondo alle notizie di ogni giorno mettendo molta poca distanza tra la propria persona ed il suo profilo Twitter. Donald Trump ha sfruttato così il potenziale della discussione senza filtro, cosa che non aveva fatto nessun’altro in precedenza. Dall’altra parte, la Clinton è sempre parsa più distante. Il suo folto team digital ha sempre e solo creato messaggi puliti, in terza persona, graficamente perfetti ma che mettono un po’ di distanza tra il candidato e l’elettorato digitale. Un abuso di perfezionismo, troppo perlato e con poco intrattenimento. Il popolo americano ama l’entertainment, ricordiamocelo.
Il consiglio di questo capitolo è quindi: dominate le conversazioni sui social, non tanto per catturare l’elettorato, quanto per catturare l’attenzione dei media.
Viva la merda!
Questo è un manuale, dove per antonomasia i concetti vengono snocciolati per essere esplicativi e comprensibili 0-99, doverosamente prolissi e oltremodo noiosi per dare il potere di comprensione anche agli ultimi e garantire a questi una possibilità reale di diventare il nuovo Presidente USA nel 2020, forse nel 2024.
Donald Trump è sempre, costantemente, incazzato. Oltre al tema dell’autenticità online, di cui parlavamo nel capitolo precedente, soffermiamoci sulla conseguente, ovvia, continuazione: i contenuti. Hillary Clinton predica l’ottimismo, come abbiamo visto fare ad Obama. Trump, invece, la rabbia.
I sentimenti che muovono la viralità di un contenuto sono soprattutto la rabbia, l’ansia, la paura. Perfetto, Donald! Se siete determinati lasciate perdere l’ottimismo, la tristezza, il buoncuorismo.
Un’altra variabile fondamentale è il fenomeno che io chiamo condivisione alla cieca. Da uno studio Chartbeat è emerso che la maggiorparte delle persone che clicca su un articolo, non scrolla mai. Cioè lo condivide pure, lo apre, ma non lo legge. La maggior parte delle persone legge solo i titoli, come per i film, come per i libri. Leggono le headline, si genera una reazione emotiva, e vanno avanti. E quando parlo di “persone”, parlo di tutti noi.
La campagna povera di contenuti di Trump è stata perfetta in questo senso. Gli elettori hanno sorvolato sui contenuti pesanti e si sono affidati ai titoli. Quella della Clinton, d’altro canto, è stata basata sul fact-checking. Perché dire menzogne quando in rete la verità è a due click di distanza? Sembrava una buona tattica, ma il libro è stato giudicato dalla copertina: perché impegnarsi a scrivere?
Da quando Ted Cruz divenne il primo candidato alle primarie, a marzo del 2015, fino al giorno delle elezioni, gli americani hanno generato quasi 9 miliardi di like, post, commenti e condivisioni su Facebook inerenti le elezioni. Background: il 44% dei cittadini americani usa soltanto Facebook come unica fonte di informazione.
È logico, quindi, che una buona strategia si baserà su contenuti molto sharabili, non necessariamente buoni, non necessariamente veri. Uno studio di BuzzFeed, fatto nelle fasi finali della corsa alla Casa Bianca, ha rilevato che i Repubblicani condividono notizie false e/o fuorvianti nel 38% dei casi, i Democratici si fermano ad un misero 20%. Le notizie virali non sono necessariamente vere. L’algoritmo di Facebook premia quasi soltanto la viralità. Racchiude gli utenti in un spazio comodo dove le proprie convinzioni vengono rafforzate, dove le notizie virali rimangono letteralmente in alto e diventano le uniche, vere, notizie. Isolati nella propria filter bubble, la bolla di filtraggio, è impossibile o quasi guardare dall’altra parte per vedere cosa succede e farsi un’idea. Un’analisi ha rilevato che negli ultimi tre mesi di campagna elettorale, le fake news hanno soverchiato le news vere provenienti da siti di qualità come New York Times e Washington Post a livello di reazioni Facebook. Tanto per capirci la notizia con più interazioni, quasi un milione, è stata quella (molto, molto fake) sull’endorsement di Papa Francesco a Trump, seguita con quasi 8cento mila reazioni da quella (ancora più fake) in cui la “Clinton vende armi all’ISIS”. Per quanto Zuck possa sforzarsi di scrivere, è chiaro che Facebook ha falsato le elezioni. Twitter su questo, non può aiutarvi.
Insomma, inondare la rete di notizie false può farvi vincere le elezioni. Noi su Digitally, non possiamo aiutarvi in questo senso.
Per arrivare alla Casa Bianca vi servirà una sanguinaria, ma soprattutto costosa, campagna elettorale. Secondo Brad Parscale, direttore della campagna digital del presidente Trump, Facebook ha giocato un grande ruolo nella raccolta fondi online, arrivata a $250 milioni. Mentre la Clinton nell’ultimo mese ha speso $200 mln in passaggi pubblicitari in TV, Parscale e i suoi ne hanno speso meno della metà in advertising online sfruttando alla grande i feedback degli utenti stessi. Il team, infatti, ha usato tra le 40 e le 50.000 varianti di messaggi pubblicitari, in un gigantesco A/B testing che ha garantito una massima penetrazione per i messaggi più performanti. La campagna è costata $90 mln, quasi tutti riversati proprio su Facebook.
Ricapitolando, usate twitter per sfogarvi, Facebook vi servirà per la raccolta fondi.
Siete stati eletti, God bless America. Il vostro staff vi dirà che è il caso di tornare seri, dopo tutte quelle notizie false e quei tweet omofobi. Sarebbe saggio usare un po’ di moderazione, perché avete gettato merda sulla Silicon Valley e sugli altri, parlato di muri con il Messico ed è il caso di rimettersi in carreggiata, soprattuto quando si sono scatenate proteste in tutto il paese.
Hillary, telefonami che c’organizziamo.