Mentre l’obiettivo di mezzo mondo sembra essere inseguire la fama personale, c’è uno sparuto gruppo di personaggi illustri che ci tiene a mantenere l’anonimato. Parliamo di musicisti, scrittori, artisti. Spesso in questi casi, l’anonimato finisce per diventare una componente essenziale della notorietà stessa.
Negli ultimi tempi si parla spesso del caso della scrittrice Elena Ferrante, autrice di best seller (L’amica geniale) di fama internazionale: l’identità dell’autrice è sconosciuta e per svelarla si sono fatte indagini e ricerche illustri. Bisogna ammettere che la curiosità che suscita la sua identità nascosta è parte fondante della sua fama stessa.
L’anonimato, infatti, ha il potere di aprire l’immaginazione e suscitare la curiosità. In Come un romanzo, Daniel Pennac, sostiene che facendo esperienza di un’opera, il “lettore” ha sempre in mente l’autore come una sorta di figura evocativa. Cosa succede quando quest’autore non ha un volto, non conosciamo il suo vero nome, dubitiamo anche della sua identità di genere?
Il potere immaginifico si amplifica.
Lo sanno bene quelli che per un motivo o per l’altro utilizzano l’anonimato come un marchio che contribuisce a definire la personalità dell’artista. Un esempio su tutti è quello di Banksy.
Anonimato e street art vanno a braccetto da sempre, lo pseudonimo è necessario, la street art conserva la sua componente di segretezza.
Ma questo vale per ogni street artist, anche quello del tuo quartiere e da solo l’anonimato non basta. Nel caso di Banksy o dell’italiano Blu, l’identità segreta è una condizione iniziale necessaria che, abbinata alla bravura, alla sorpresa, al messaggio, è in grado di creare culti globali di una personalità artistica.
Cosa succede nel mondo della musica, invece, dove il culto della fisicità dell’artista è una componente fondamentale? Basti pensare alla prima pop star che vi viene in mente e a cosa sarebbe questa senza il suo “corpo”. Ci sono casi, però, che hanno ribaltato lo schema e sulla segretezza o sulla “maschera” hanno costruito parte della loro fama. Pensiamo ai Daft Punk, ai Gorillaz o ai Residents, che mantengono una segretezza strettissima sulla loro identità dalla prima metà degli anni ’70.
Ci sono poi i casi in cui l’anonimato non è tanto un punto a favore della fama, ma è funzionale alla riuscita di un progetto ed alla sua credibilità. Un esempio è quello di Satoshi Nakamoto, lo pseudonimo usato dall’inventore di Bitcoin. Si sono versati fiumi di inchiostro sulla vera identità di Satoshi Nakamoto, ma per anni si è brancolato nel buio. Sono almeno dieci le persone che sono state identificate come Satoshi Nakamoto, quasi tutti sviluppatori che in un modo o nell’altro hanno a che fare con la crittografia. Tutti hanno negato.
Nel 2015, due articoli di inchiesta pubblicati da Wired e da Gizmodo, sostennero che si trattasse di Craig Steven Wright, un imprenditore australiano. Qualche mese dopo il diretto interessato dichiarò pubblicamente di essere il vero Satoshi Nakamoto e per dimostrarlo firmò un messaggio con la chiave di crittografia privata di Bitcoin. La validazione, tuttavia, fu messa in dubbio e Wright al momento topico uscì di scena cancellando tutti i post dal suo blog e lasciando il mondo in sospeso con una nota intitolata “I’m sorry” in cui affermava di avere le prove sull’identità di Satoshi Nakamoto, ma di non avere il coraggio di pubblicarle.
Il fatto che ci abbia lasciati con un “arrivederci” ci dà ancora qualche speranza.
Questi casi dimostrano che non solo fama e anonimato possono convivere, ma che anzi, in alcuni casi, uno aiuta l’altra. Più interessante è chiedersi se sia giusto o meno insidiare il diritto all’anonimato che certi personaggi esigono e difendono. A proposito della Ferrante, l’autore di quest’articolo di The Guardian sostiene si tratti di un’ingiustizia motivata da sessismo e malignità e un po’ sono anche d’accordo.
Ma è davvero tutto qui? Perché in definitiva ci teniamo tanto a svelare identità che fanno di tutto per rimanere segrete?